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Kossuth: la tenerezza di un eroe

Per quale motivo Lajos Kossuth, ad 82 anni, chiese a Sárika Zeyk, appena diciassettenne, di bruciare le sue lettere?Nel 1918, disattendendo la promessa fatta molto tempo prima, la ragazza- che ormai aveva 52 anni- consegnò le preziose missive al direttore della rivista “Annale” di Budapest, rivelando un lato sconosciuto del protagonista dell’indipendenza ungherese.Così, se la lapide in Via dei Mille n. 20, con discrezione, ricorda solamente il soggiorno del grande statista nella nostra città, attraverso questa corrispondenza tornò a vivere una vicenda delicata, ambientata tra le valli di Lanzo e l’Europa Orientale.Era l’estate del 1884.Lei, dalla Transilvania, era ospite dello zio, Giuseppe Zeyk, console degli Stati Uniti a Torino, di origine ungherese.

Lui, il “Grande Esule”, viveva a Torino dal 1867 e, per allontanarsi dall’afa cittadina, aveva accettato l’invito del diplomatico a Ceres, dove quest’ultimo aveva preso una casa per le vacanze.

Trascorsero insieme poche settimane, raccogliendo piante per gli erbari.

Al momento di partire, Lajos si congedò con un addio, ma Sárika rispose che si sarebbero rivisti e, negli anni successivi, continuò a scrivergli, riponendo corolle di fiori all’interno delle buste.

In questo rapporto epistolare, al veterano si svelò il mondo del futuro, alla ragazza quello del passato.

Settimana dopo settimana, gli occhi del vecchio trovarono una nuova luce, mentre la fanciulla approfondiva, anche grazie alla stampa, le vicende del suo confidente.

Kossuth era il simbolo della libertà magiara. Laureato in legge, giovanissimo era divenuto segretario di un membro della Dieta Nazionale Ungherese, interessandosi così alla politica. Nel 1837 osò pubblicare i resoconti parlamentari vietati dal governo e fu condannato al carcere per 4 anni. Senza scoraggiarsi, continuò ad approfondire gli studi, anche grazie al sostegno di Teresa Meszlényi, che poi divenne sua moglie. Dieci anni più tardi fondò un nuovo periodico, “Il giornale di Pest”, in cui auspicava l’autonomia dagli Asburgo; divenuto un oratore sempre più carismatico, riuscì a farsi eleggere deputato ed, in seguito, ministro delle finanze.

Sárika era nata solo nel 1866, ma sapeva che fu quello il momento in cui si sviluppò la coscienza del popolo ungherese, diverso dai vicini Slavi. In famiglia si parlava spesso del 1848, l’anno della rivoluzione a Vienna e dell’insurrezione a Budapest; l’imperatore Ferdinando I fu costretto a concedere il primo governo autonomo a Lajos Kossuth, che abolì la servitù della gleba, istituì un parlamento a suffragio universale, avviando la costruzione di una nazione indipendente dall’Austria.

Le altre nazionalità dell’Impero, i Croati del Banato e i Romeni della Transilvania, tuttavia, non riconobbero la sovranità ungherese e si schierarono con Vienna. In quegli scontri morì Sándor Petöfi, il giovane poeta di cui Sárika, come tutti, conosceva a memoria i versi più celebri: “…un pensiero mi turba/ di morire nel letto, fra i cuscini; lentamente appassire come il fiore morso al dente di un verme nascosto…che io sia l’albero che il fulmine trapassa/ o l’uragano sradica”.

E nonostante la partecipazione di volontari italiani e legioni polacche, l’insurrezione fallì a causa delle sconfitte a Novara e a Roma e all’aiuto dello Zar nei confronti dell’Austria, timoroso di una rivoluzione in Polonia.

Il “Generale”, così veniva chiamato dagli Italiani, si rifugiò quindi in Turchia, poi a Londra, in America, in Francia e, infine, in Piemonte, cercando di collegare la questione dei suoi connazionali all’indipendenza italiana e polacca, contro il comune nemico. I Savoia, d’altra parte, erano stati gli unici a non ritirare la costituzione concessa nel 1848 ed era per questa ragione che a Torino si trovavano tanti patrioti.

Nel 1859, nonostante il contributo degli Ungheresi alla Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, l’armistizio di Villafranca distrusse il sogno di Kossuth: l’ indipendenza assoluta con capo qualcuno che non fosse l’imperatore austriaco.

Eppure, nella loro corrispondenza, Sárika non vedeva un anziano deluso, ma un uomo estremamente consapevole e, inaspettatamente, affettuoso.

Gli raccontava la sua quotidianità e lui le rispondeva con commozione:“...nel tuo ultimo messaggio ho trovato tanta purezza di sentimenti, sincerità e calore che mi meraviglia. Come potevo ancora in questa vita, quale vecchio e paterno amico, trovare tanta benevolenza?..mandami, ti prego, una violetta tricolore”. E ancora: “…resto male nel guardare queste stanze senza di te, il pianoforte senza i tuoi accordi…ora il pensiero che non ci sei mi fa soffrire”.

Era per questo che Kossuth le aveva chiesto di distruggere le lettere? gli eroi dovevano apparire sempre invincibili e le emozioni rischiavano di scalfirne la fama?

La vita, imperturbabile, proseguiva. Sárika si sposò, scrivendogli anche nei primi mesi di matrimonio. E lui rispondeva: “Ti ringrazio…tu sei sempre un raggio di sole sulle nuvolose giornate della malinconica vecchiaia…”

Quando divenne madre di Margherita, Sárika chiese all’amico di farle da padrino per procura.

Il 20 marzo 1894 accadde l’inevitabile: ciò su cui l’ex combattente, in precedenza, aveva scherzato: “Ti comunico che quel somaro della morte, bussando, ha creduto a quello che gli diceva il mio domestico, che non ero in casa”. Sulle rive del fiume Szamos, nel piccolo paese di Szentbenedek, la giovane strinse a sé una delle prime lettere che aveva ricevuto:“…il fiorito maggio non può capire il brinato dicembre…”. 

Al termine della Prima Guerra Mondiale, quando finalmente l’Ungheria divenne indipendente, Sárika decise di far sapere al popolo magiaro che gli eroi sono tali non perché invincibili, ma proprio perché teneramente umani.

Kossuth: la tenerezza di un eroe

emanuele

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