Era giovane, nobile, ricco e attraente.

Il suo viaggio in Europa era durato sei anni, ed ora, alla fine del 1772, era tornato a Torino, in una “…magnifica casa sulla bellissima Piazza San Carlo, ammobiliata con lusso, gusto e singolarità” per continuare, almeno pensava, una “vita da gaudente con gli amici”.

Il destino, però, progettava qualcos’altro per Vittorio Alfieri. Presto, infatti, il ventitreenne sarebbe incappato nel suo ultimo “intoppo amoroso”: una storia senza lieto fine che lo portò da “presuntuoso e ignorante” (così si definisce nelle sue memorie) all’”età virile”, diventando, suo malgrado, uno dei protagonisti della letteratura italiana.

All’angolo tra l’odierna Via Alfieri e Piazza San Carlo è posta una lapide proprio sul palazzo in cui lo scrittore compose le prime tragedie. L’iscrizione, in realtà, nasconde l’amore proibito che legò, tra il 1773 e il 1775, l’autore  a “…una donna distinta di nascita, ma di non troppo buon nome nel mondo galante, ed anche attempatetta…”: Gabriella Falletto di Villafalletto, con dieci anni in più e già sposata al marchese Giovanni Antonio Turinetti di Priero.

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I loro appartamenti erano uno di fronte all’altro. Il marchese Turinetti frequentava le bische insieme a Giacomo Casanova, mentre nella casa, vuota, la moglie si annoiava.

Così, secondo lo stesso Alfieri: “nonostante a principio non l’amassi, né poi mai la stimassi e neppure molto la di lei bellezza non ordinaria mi andasse a genio…mi ritrovai ingolfato fino agli occhi”.

Il giovane dimenticò, per la vicina di casa, gli amici e gli adorati cavalli.

Quando la nobildonna si ammalò, le fece persino da servo, rimanendo ai piedi del suo letto per mesi, senza neanche farla parlare per paura di disturbarla. Nell’anticamera dei marchesi Turinetti si trovavano degli arazzi che rappresentavano Antonio e Cleopatra e, in quelle giornate lunghissime, per ingannare il tempo, Alfieri cominciò a “scribacchiare”, non sapeva neanche lui, “se una tragedia o commedia, d’ un sol atto o cinque”, con protagonisti i due amanti raffigurati alle pareti.

Poi, non appena l’amante guarì, quei fogli furono dimenticati sotto il cuscino di una poltroncina.

Eppure, dopo un anno di abbracci e litigi, era l’inverno del ‘75, al ritorno da una serata trascorsa insieme a teatro, Vittorio lasciò l’”odiosamata signora”, con l’intenzione fermissima non metter più piede in casa sua.

Presto, tuttavia, quelle stanze cominciarono a mancargli: continuò a pensare alla gentildonna e ai suoi arazzi e decise di sviluppare quella tragedia abbandonata sotto un cuscino, dove le emozioni dei mitici innamorati si confondevano con le loro.

Cominciò a “rappezzare, rimutare, e impazzire intorno a quella mal nata Cleopatra”; per non farsi distrarre si fece legare, ancora, alla sedia da Elia, il suo fedele servitore.

Il 10 e l’11 giugno dello stesso anno, l’opera fu rappresentata con successo al teatro Carignano ma l’autore, non soddisfatto, si pentì subito “di essersi sì temeriamente esposto al pubblico” e decise di “conseguire un giorno meritatamente la palma teatrale”.

Lasciò nuovamente Torino, compiendo due viaggi letterari in Toscana e studiando Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Lì, nel 1777, incontrò Luise Stolberg d’Albany che, seppur sposata a Carlo Stuart, fu “il degno amore” della sua vita. Ma anche questa relazione scandalosa lo costrinse a nuovi spostamenti: prima in Italia settentrionale e, dal 1778 al 1792, in Francia, dove inizialmente si lasciò conquistare dagli ideali della Rivoluzione per poi rimanere deluso dalla realtà del Terrore.

Tornò infine a Firenze, dove morì all’improvviso nel 1803.

La marchesa di Priero aveva trasformato, nonostante tutto, un cicisbeo in un uomo.

A causa di quell’abbandono, il Piemonte annoverò finalmente un autore in grado di scrivere in italiano, e non in dialetto. E, negli anni successivi, gli Italiani-che ancora non esistevano politicamente- avrebbero guardato a quello spirito inquieto, e già romantico, come all’uomo libero che anticipò, con il suo eroismo e il suo desiderio d’indipendenza, gli ideali del Risorgimento.

Non poco, per una relazione finita male.

Eugenio Buffa di Perrero