Quante volte siamo passati davanti al Caval ‘d brôns, il monumento equestre che domina Piazza San Carlo?
Tutti i Torinesi sanno che raffigura Emanuele Filiberto di Savoia, il duca che, il 10 agosto 1557, sconfisse le truppe di Enrico II di Francia, riappropriandosi definitivamente dei suoi possedimenti in Piemonte e segnando, per i secoli successivi, il destino italiano della dinastia.
Forse però non tutti sanno che, proprio grazie a questo condottiero, il nostro cioccolato è tra i migliori al mondo: Emanuele Filiberto era alleato dell’Imperatore Carlo V, che gli regalò i primi frutti di cacao dal Sud America. Ed è sempre merito suo, infine, se la squadra nazionale di calcio italiana indossa, ancora oggi, la maglia azzurra: Emanuele Filiberto partecipò alla battaglia di Lepanto, protetto da una bandiera della stessa tonalità del manto della Madonna!
Ma tante sono le curiosità di questo monumento: si pensò, inizialmente, persino di arricchirlo con fontane che avrebbero fornito acqua ai cittadini (i famosi “toretti” compariranno solo a fine ‘800) e le sue 14 tonnellate sono, in realtà, due fusioni diverse: il cavaliere, infatti, è solo appoggiato al suo destriero.
Ma ciò che forse, oggi, passa inosservato è che questo monumento, inaugurato nel 1838, chiude idealmente un percorso iniziato 400 anni prima quando, nel pieno del Rinascimento, a Padova, Donatello realizzò la statua a cavallo del Gattamelata: condottieri inseriti in spazi pubblici che dovevano essere, con il loro valore, esempio per tutti i cittadini.
Si può dire, anzi, che proprio nella prima metà del XIX secolo Torino, con le sue sculture posizionate nei punti strategici della città (con la statua del letterato d’Azeglio a Porta Nuova, lo scienziato Sobrero vicino a Porta Susa…oggi purtroppo spostati!), divenne il modello di riferimento per le altre capitali europee, desiderose di celebrare gli stati nazionali e gli imperi che stavano nascendo.
E non è un caso, dunque, che torinese fosse scultore incaricato di trasformare, con la sua arte, le nuove metropoli.
In Via Principe Amedeo 31 una lapide un po’ sbiadita, posta sulla facciata della sua casa natale, ricorda Carlo Marocchetti che “onorò la scoltura italiana in patria, in Francia, in Inghilterra”.
L’autore, nato nel 1805, era figlio di un avvocato al servizio di Napoleone. Presto si trasferì a Parigi con la famiglia, frequentando gli ateliers di numerosi artisti. Il suo talento riuscì a vincere l’avversione che i Savoia provavano per chi aveva collaborato con i Bonaparte e, nel 1827, la sua “Bimba che gioca con un cane” fu acquistata dal ministro del Regno di Sardegna in Francia, che ne fece omaggio al Re Carlo Felice. Qualche anno più tardi, proprio il Caval ‘d brôns, gli assicurò persino il titolo di barone da parte dei Savoia!
A Parigi, intanto, gli Orléans gli avevano affidato le opere fondamentali della Monarchia di Luglio: l’altare maggiore della Madeleine, le statue equestri dell’erede Ferdinando, il bassorilievo della Battaglia di Jemmapes nell’Arco di Trionfo e persino il progetto per la statua di Napoleone I per “Les Invalides”. Nel suo castello di Vaux Sur Seine, Marocchetti ospitava artisti come Delacroix e Fontanesi, ma anche politici come Cavour e Botta e persino Bernardino Drovetti, a cui si deve la nascita del Museo Egizio di Torino.
Poi, con la rivoluzione del 1848, l’artista seguì Filippo d’Orléans nell’esilio inglese, dove fu protetto dalla Regina Vittoria che, nel suo diario, lo definì “molto gradevole e piacevole; un vero gentiluomo”.
Nel 1851 eseguì il monumento di Riccardo Cuor di Leone, di cui la copia in bronzo si trova oggi davanti a Westmister, una statua dedicata Stephenson, ideatore delle locomotive a vapore, e una deliziosa scultura di Elisabetta Stuart nell’isola di Wight; insieme a Lord Landseer, creò i quattro leoni che, ancora oggi, si vedono ai piedi della colonna di Nelson a Trafalgar Square.
Il successo mondiale della sua produzione fu rappresentato dal monumento funebre di Alberto e Vittoria, a Kanpur, in India, e dall’obelisco per i Caduti in Crimea, presso il Cimitero degli Inglesi, in un sobborgo di Istanbul.
Non solo scultore, ma anche diplomatico “sui generis”, perfettamente inserito nell’alta società internazionale, in un momento così delicato come quello antecedente l’unificazione italiana.
Ed ancora, consigliò i sovrani nella creazione dei nuovi musei: la National Gallery, per esempio, nacque anche grazie ai suoi suggerimenti.
Fu anche un grandissimo collezionista: famosa la sua raccolta di stampe, dove spiccavano i nomi di Dürer e Rembrandt, opere di Luca Signorelli e Cima di Conegliano, dipinti attribuiti a Giulio Romano, Caravaggio, Tintoretto e Goya.
Morì nel dicembre del 1867, mentre si stava recando a Bruxelles per le nozze del primogenito Maurizio, anch’egli scultore.
Proprio per spartire equamente l’eredità tra la consorte ed i figli, furono organizzate tre aste; molti reperti della sua collezione oggi sono custoditi al Metropolitan Museum di New York, al Fine Arts Museum di Boston, al Toledo Museum of Art in Ohio, e anche nel “nostro” Palazzo Madama.
Una vita, quella di Carlo Marocchetti, votata alla Bellezza, che sembra anticipare quella dei grandi esteti di inizio ‘900, senza però il loro lugubre decadentismo.
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