In via Egidi n.6 si trova un palazzotto dal colore giallo pallido, con una porta in legno decorata da inquietanti mascheroni. Volgendo lo sguardo verso l’alto, una lapide testimonia il breve soggiorno di Torquato Tasso nell’autunno del 1578; in realtà, non vi è alcun documento che attesti la precisa dimora dello scrittore, ma sappiamo che il letterato giunse a Torino in occasione delle nozze di Filippo d’Este con Maria di Savoia, figlia di Emanuele Filiberto e di Laura Crevola, un’amore clandestino del duca.

Erano gli anni successivi alla battaglia di San Quintino: i Savoia avevano sconfitto i Francesi e Torino, posta sul versante italiano delle Alpi, era la nuova capitale della dinastia che si proiettava, finalmente, verso il resto della penisola. Con il matrimonio di Maria e Filippo si univano idealmente le sorgenti del Po, controllate dai Savoia, con il suo delta, dominato dagli Estensi.

Emanuele Filiberto cercava un poeta che celebrasse il nuovo potere e, allo stesso tempo, il poeta cercava un nuovo mecenate. Tasso, infatti, aveva appena abbandonato Alfonso II d’Este, a cui fu legato, in realtà, da un rapporto di ammirazione e avversione che durò tutta la vita.

Un lunghissimo cammino lo aveva portato da Napoli a Roma, da Ferrara a Mantova e Urbino, fino a che si rivolse al duca sabaudo, definendolo il più “glorioso principe d’Italia”.

Prima di arrivare a Torino il poeta si fermò a Vercelli, ospitato da un nobile di campagna a cui dedicò “Il Padre di Famiglia”, uno dei suoi più famosi “Dialoghi”, ricerca di un’alternativa al meschino mondo cortigiano.

Infine, sporco e con vestiti logori, arrivò di fronte alle Porte Palatine: c’era la peste e i gabellieri gli negarono l’accesso, in quanto privo del tesserino sanitario obbligatorio (!). Solo l’intervento di Angelo Ingegneri, diplomatico incontrato a Roma tre anni prima, permise a Torquato Tasso di entrare in città.

La permanenza alla corte sabauda fu, finalmente, serena: è probabile che qui iniziò la stesura de “Il Forno overo della nobiltà”. L’opera, espressione del massimo splendore e della contemporanea decadenza della cultura rinascimentale, divenne ironicamente famosa grazie a Manzoni che, qualche secolo più tardi, la citò nella biblioteca di Don Ferrante, come simbolo del cavallerismo più ottuso.

Le maggiori curiosità tra i cortigiani furono, sicuramente, per le ennesime correzioni che Tasso apponeva a “ La Gerusalemme Liberata”, il poema iniziato a 15 anni e su cui lavorò sino alla fine dei suoi giorni.

Sono pochissime le notizie relative al suo soggiorno, ma un’altra lapide, posta dietro l’ingresso della Chiesa di San Lorenzo, ricorda che l’animo inquieto dello scrittore fu alleviato il 10 ottobre, dalla venerazione della Sindone che, proprio quell’anno, era stata trasferita da Chambéry.

Malgrado ciò, dopo pochi mesi, l’ossessiva nostalgia per Ferrara si impossessò ancora del poeta: implorò nuovamente i propri servizi ad Alfonso d’Este e quello fu il preludio della fase più dura della sua vita: accolto con freddezza, fu poi internato nell’ospedale dei pazzi di Sant’Anna per sette anni, per ordine del suo stesso signore.

Ormai stremato, riprese a peregrinare di corte in corte e morì nell’aprile del 1595, a 51 anni, nel convento di Sant’Onofrio a Roma. Il destino, beffardo, gli fece chiudere gli occhi poco prima dell’agognata incoronazione letteraria sul Campidoglio.

Curiosamente, un libretto senza autore del1911, edito a Torino, cita l’episodio- difficile da verificare- di una fattucchiera che, proprio nella nostra città, gli predisse una grandissima gloria che sarebbe giunta poco prima di morire.

Aneddoti a parte, salendo lo scalone d’onore di Palazzo Reale, realizzato poco dopo l’Unità d’Italia, ci si imbatte in un’enorme tela che raffigura l’incontro tra Emanuele Filiberto e Torquato Tasso.

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I Savoia, divenuti finalmente sovrani di tutta l’Italia, omaggiarono, in questo modo, il “più italiano” dei nostri letterati, il primo autore realmente “moderno”.

Quanti, infatti, tra i nostri grandi poeti, possono vantare un’origine altrettanto “italiana”?

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Tasso nacque a Sorrento, da Bernardo, gentiluomo di Bergamo originario di Venezia, e da Porzia de Rossi, napoletana di origine pistoiese. Come Dante, e più di tutti gli altri scrittori, il “volontario esilio” gli permise di conoscere le tante realtà della nostra frammentata penisola.

Tragicamente moderno, nella sua tormentata solitudine, Tasso anticipò il dissidio interiore dei geni che non possono ciecamente ubbidire al potere: in manicomio, ancora oggi, finiscono gli intellettuali dissidenti, non i collaboratori convinti.

I suoi versi, tuttavia, furono giudicati già da alcuni suoi contemporanei, torbidi ed eccessivamente complicati; barocchi, diremmo noi.

Ma probabilmente proprio questo è il fascino di Tasso. Contemporaneo di Galileo Galilei che, fiducioso nella scienza, scriveva in una lingua limpida e semplice, il poeta indagava la complessità della psiche e le sue ombre più profonde, in un dissidio che dura ancora adesso.

Forse è questa frattura, tra certezze matematiche e contrasti interiori, a rendere così enigmatici i mascheroni di Via Egidi.

Eugenio Buffa di Perrero