Oggi la nostra passeggiata si rivolge alla scoperta di tre diverse iscrizioni che ci raccontano la nascita dell’Inno Nazionale Italiano.

Partiamo da Via XX settembre 68/B, dove una targa rievoca una serata di novembre dell’anno 1847.

Qui viveva Lorenzo Valerio, un poliedrico personaggio che nel 1831 fu costretto a lasciare il Piemonte per le sue idee liberali, tornando 6 anni più tardi come imprenditore e giornalista, divenendo infine uno dei capi della sinistra democratica.

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Nel suo salotto si faceva “musica e politica insieme” e quella sera, tra letterati, artisti e intellettuali, c’erano due Genovesi. Il primo si chiamava Michele Novaro; aveva 29 anni e si era trasferito a Torino per lavorare come tenore e maestro del coro al Teatro Regio. Il secondo, pittore, si chiamava Ulisse Borzino e, in quel ricevimento, gli consegnò alcuni fogli dell’amico comune, Goffredo Mameli, che chiedeva di mettere in musica i versi che aveva scritto qualche giorno prima.

Dopo la lettura delle carte, visibilmente commosso, Michele Novaro si mise al cembalo, “assassinando colle dita convulse quel povero strumento per cercare una melodia che si potesse adattare alla forza delle parole”, come riportò Anton Barrili, biografo di Mameli e poi volontario garibaldino.

Non riuscendo a trovare gli accordi adatti, Novaro si congedò da Lorenzo Valerio e si diresse verso il proprio appartamento, situato al secondo piano di Via Roma vecchia, per trovare, in solitudine, i suoni che avrebbero accompagnato quel testo. E così, come riporta la scritta realizzata nel 2006 sul marciapiede di Via Barbaroux 6, “qui il maestro Michele Novaro divinava le note al fatidico inno di Goffredo Mameli”.

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La sera del 24 novembre, presso il vecchio Caffè Calosso, meglio conosciuto come “Caffè della Lega Italiana”, in via Dora Grossa (oggi via Garibaldi), il tenore annunciò agli amici di aver composto la musica del ”Canto degli Italiani”, invitandoli nella sua abitazione. Aveva anche variato le parole iniziali: non più “Evviva l’Italia”, ma “Fratelli d’Italia”.

Tra i presenti, c’era il giornalista Vittorio Bersezio che scrisse: “…quando ebbe gettato quell’ultimo grido, quel Sì finale, che ha tanta forza e tanta fierezza, tutti si strinsero attorno al Maestro: lo si serrò, lo si abbracciò, si plaudì, si gridò, si pianse. Si proclamò, ed era vero, che l’Italia aveva il suo CantoQuel canto bisognava farlo conoscere, diffonderlo”. 

E proprio per questo motivo, in Via Rossini 8/7 un’ultima lapide ricorda il luogo in cui, per la prima volta, l’inno risuonò a tutti: “L’Accademia Filodrammatica aprì le sue porte al pubblico che doveva giudicarlo e impararlo. L’effetto ne fu enorme. Pochi giorni dopo tutta Torino sapeva quel canto, poi tutto il Piemonte, poi tutta Italia”.

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La data dell’esecuzione torinese rimane ancora oggi imprecisata, ma il 10 dicembre dello stesso anno, a Genova nel quartiere di Oregina, l’inno fu suonato di fronte a migliaia di patrioti che, da ogni regione, erano convenuti in Liguria per commemorare la rivolta del 1746, in cui erano stati cacciati gli occupanti austriaci.

Il testo si rivolgeva finalmente al popolo e non più ai sovrani; quelle parole, scritte di getto, racchiudevano gli episodi più coraggiosi nella storia della penisola: c’era il richiamo alla fratellanza dei popoli oppressi e l’insistenza sul ruolo oppressivo del dominio straniero.

Così, da quel momento, il “Canto degli Italiani”, accompagnò il Risorgimento: dalla Prima Guerra d’Indipendenza, alla presa di Roma del 1870, sino agli episodi dell’Irredentismo.

Forse non tutti sanno che il “Canto degli Italiani” è stato ufficialmente riconosciuto come inno nazionale solo nel 2017, dopo un’ imbarazzante condizione di provvisorietà, durata oltre 70 anni, in base ad un provvedimento del primo governo repubblicano del 12 ottobre 1946.

L’inno, in effetti, non piaceva neanche a Mazzini che, vedendone i “limiti artistici”, già nel 1848 chiese a Verdi di musicare un nuovo canto, sempre sui versi di Mameli; ne uscì un risultato disastroso, lontano da quel “testo facile e popolare”, auspicato dallo stesso musicista.

Qualcuno poi avrebbe preferito il coro del “Nabucco”, dimenticando che i protagonisti dell’opera erano schiavi vinti e rassegnati, lontani dai coraggiosi eroi risorgimentali. In tempi più recenti, ci fu anche chi propose una nuova composizione, commissionata a qualche cantautore di successo.

Nel 1997, tuttavia, per il cinquantesimo anniversario della Carta Costituzionale, il Presidente Ciampi, per la prima volta, fece entrare a Palazzo Madama un’orchestra che suonò l’inno, con la direzione di Salvatore Accardo. Seguirono poi altre esecuzioni straordinarie: Giuseppe Sinopoli, Claudio Abbado e Zubin Mehta.

Verdi aveva insistito su un aspetto fondamentale: l’inno doveva essere “facile e popolare”. Finalmente, nel 2006 a Torino, una bimba di appena 9 anni cantò “Fratelli d’Italia” durante la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi Invernali, emozionando il mondo.

E ancora, nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’unità nazionale, Roberto Benigni lo cantò al Festival di Sanremo: il simbolo della nostra libertà era arrivato davvero a tutti.

eugenio buffa di perrero

Eugenio Buffa di Perrero