Clio, musa della Storia, ama i coraggiosi e questi, pur di assaporare la sua gloria, sono disposti a qualche compromesso.

L’Italia nacque da un gruppo di uomini che poco si sopportavano.  Nonostante ciò, a fine ‘800, i pittori riunirono, almeno nelle tele, quei “Padri della Patria” che il popolo doveva conoscere: il re Vittorio Emanuele II, il ministro Cavour, il condottiero Garibaldi e il carbonaro Mazzini: impresa eroica per un monarca ritratto accanto a un repubblicano e per un politico che odiava gli avventurieri.

La Storia, poi, dimentica le donne; non esiste un dipinto che ritragga insieme le dame che accompagnarono i Padri dell’Italia. E anche queste, in fondo, poco avevano da condividere: Rosa Vercellana, sposa morganatica del sovrano, amò il marito come una semplice moglie; era diversa dalle tante nobildonne che si accompagnavano a Cavour. Anita Garibaldi alle letture preferiva le battaglie a cavallo. Giuditta Bellerio, infine, era una donna d’azione ma anche un’intellettuale.

Nacque nel 1804 a Milano, bimba aristocratica di quell’impero contro cui, presto, avrebbe combattuto. A sedici anni sposò il modenese Giovanni Sidoli, membro della Carboneria, società segreta che aspirava alla libertà politica italiana e a un governo costituzionale.

Insieme parteciparono ai moti napoletani del 1821 e poi seguì il marito in Svizzera, dove la vendetta austriaca non poteva arrivare. Giunse però la morte: una polmonite le portò via lo sposo quando aveva appena 24 anni; da quel giorno Giuditta, già madre quattro volte, lottò ancora con più forza contro i governi stranieri: partecipò all’insurrezione di Modena a fianco di Ciro Menotti, poi riparò nuovamente Oltralpe.

Nel 1832 giunse a Marsiglia, dove conobbe Giuseppe Mazzini.

Insieme fondarono la “Giovine Italia” e ragionarono sui diritti delle donne. Alla passione politica si unì quella amorosa; nacque Joseph, morto dopo solo tre anni, mai riconosciuto dal padre.

La relazione divenne difficile: la donna voleva liberare la Patria ma anche riabbracciare i suoi ragazzi, sotto la tutela del suocero che la riteneva una criminale.

Visse come una fuggiasca, temuta da ogni regnante della penisola, sempre più vicina ai mazziniani ma sempre più lontana dal cuore di Mazzini.

Nel 1837 riuscì a entrare nel ducato di Modena e rivedere i figli ma, dieci anni più tardi, Carlo II di Borbone, appena salito al potere, rinchiuse Giuditta e la sua famiglia nel carcere di San Francesco. Trasferita in prigionia a Milano, il comandante Ferencz Gyulai disse di non poter trattenere la donna e Giuditta tornò nuovamente in Svizzera, dove le sue idee erano persino tradotte.

L’amore per l’Italia, tuttavia, convinse l’eterna ribelle a trasferirsi a Torino dove, da sola, diede vita a un cenacolo animatissimo, in cui nobili e repubblicani preparavano la II guerra d’indipendenza.

Solo la morte unì questa eroina ai due uomini che amò per sempre.

Nel 1871, la stessa malattia che rese Giuditta vedova tanti anni prima, la ricongiunse al marito.

Clio, musa della Storia, fece apporre una lapide dall’Associazione Mazziniana Italiana proprio dove si trovava il suo salotto, al numero 20 di Via Mazzini: bizzarro destino per i due amanti che, separati dalla vita, oggi hanno i nomi scolpiti insieme nella pietra, riuniti dalla toponomastica della città.

eugenio buffa di perrero